“Un guerriero poeta intimista”
Una poesia dell’ardito “Fiamme Nere”, tenente Ettore Vivani, spedita dal fronte
di Euro Puletti
(Rielaborazione dell’articolo Un guerriero poeta intimista. Una poesia dell’ardito “Fiamme Nere”, tenente Ettore Vivani, spedita dal fronte, pubblicato, domenica 30 gennaio 2005, sul Sito Internet “www.cimeetrincee.it”).
Ettore Vivani, figlio del Maresciallo dei Carabinieri Paolo, nacque a Santa Margherita Belice (Agrigento), il 20 dicembre 1893, e morì, a Villa Col de’ Canali di Costacciaro (Perugia), il 1° gennaio 1923.
Ardito “Fiamme Nere” in un Reparto d’Assalto, Vivani fu decorato con 3 medaglie d’argento ed una di bronzo al valor militare.
Il 24 maggio 1915 lo colse sottotenente al 94° reggimento fanteria (brigata Messina) di stanza a Fano. In prima linea rifulsero sùbito le sue eccellenti qualità di combattente, le sue innate doti di coraggio e il suo altissimo senso del dovere. Fin dal principio si conquistò l’affetto e la stima incondizionati dei suoi superiori. Il colonnello comandante il reggimento lo definì “il mio occhio destro”. Egli, più volte decorato, aveva già compiuto, e fino in fondo, il suo dovere. Dichiarato “inabile alle fatiche di guerra”, avrebbe potuto attendere, con animo sereno, il corso degli eventi. Alla notizia della disfatta di Caporetto, invece, si arruolò negli Arditi, forse nel X Reparto d’Assalto.
Il 30 marzo 1918, nel corso di un violento scontro a fuoco, rimase nuovamente e gravissimamente ferito[1] e venne così insignito, per la terza volta, della medaglia d’argento al valor militare. Per lui, la guerra era finita definitivamente. Un anno intero lo trascorse degente negli ospedali militari di Milano. Tornò, in séguito, a casa dei suoi genitori, a Villa Col de’ Canali, versando nel pietoso stato di grande invalido di guerra.
Il tenente Vivani fu decorato anche di altre medaglie, quali, ad esempio, la croce dell’Ordine di San Giorgio (conferita soltanto ai soldati più meritevoli di ogni divisione), una decorazione del governo inglese ed una di quello francese, cioè la “croce di ferro con stella d’oro”. Stando alla testimonianza orale dello storico di Costacciaro, insegnante Ruggero Lupini, il quale, da bambino, ebbe modo di conoscere l’ardito Vivani, questi avrebbe ricevuto anche l’alto elogio (o, forse, l’encomio solenne) del generale Caviglia.
Queste le motivazioni delle medaglie al valor militare da lui guadagnate in brillanti azioni e terribili scontri, anche corpo a corpo.
1. Medaglia di bronzo.
“Comandante di una pattuglia, con arditezza e coraggio, tentava di catturare una pattuglia avversaria superiore in forza. All’intimazione di resa, i nemici risposero facendo fuoco; però, dopo vivo scambio di fucilate, fuggivano: uno rimase sul terreno, e un ufficiale, un cadetto e sette militari di truppa vennero fatti prigionieri. Bosco Usnik, 13 marzo 1916”.
2. Prima medaglia d’argento.
“Durante un violento scontro notturno, con soli dieci uomini, assaliva arditamente il fianco del nemico molto più numeroso, decidendo dell’esito favorevole del combattimento. Slanciatosi avanti a tutti all’assalto, lottava solo con due avversari, riuscendo a disarmarli. Confluenza del Rio Usnik col Rio del Mulino, 15-16 maggio 1916”.
3. Seconda medaglia d’argento.
“Ettore Vivani da Santa Margherita di Belice (Girgenti), sottotenente reggimento fanteria - Durante un violento attacco del nemico, che era penetrato fin nelle nostre trincee, concorreva, con esemplare ardire e coraggio, a ricacciare l’avversario, infliggendogli gravi perdite. Prendeva parte personalmente a viva lotta corpo a corpo, abbattendo un ufficiale - Vertojba Inferiore, 3 marzo 1917”.
4. Terza medaglia d’argento.
“Ettore Vivani, da Santa Margherita di Belice (Girgenti), tenente reparto assalto - Incaricato di una ricognizione notturna, si portava arditamente sotto ai reticolati nemici, ove, vistosi scoperto, lanciò i suoi uomini all’assalto. Rimasto gravemente ferito al petto, mentre, in persona, stava tagliando i reticolati, non desisteva dall’attacco, ed incitava continuamente i suoi uomini ad avanzare. Trasportato al posto di medicazione, conscio del suo grave stato, rivolgeva ai presenti parole degne del suo nobile cuore e del suo altissimo amore di patria - Case Castellani - Val Posina, 30 marzo 1918”.
Tornato a casa, ridotto ormai “l’ombra del guerriero”, Vivani si sforzava alle volte di passeggiare con gli amici di sempre, ma la maggior parte della giornata era costretto a trascorrerla a letto. Amatissimo dai suoi compaesani, il tenente Vivani si spense il primo gennaio 1923, a soli trent’anni. Solenni, grandiose ed imponenti furono le esequie tributategli dalle autorità civili e militari e dal popolo intero. Sembra che ai funerali di Stato intervenisse perfino il Prefetto di Perugia. Mai quei luoghi ebbero modo di assistere a tanta corale partecipazione.
La comunità di Villa Col de’ Canali volle, in séguito, perpetuare la memoria del tenente Vivani, intitolandogli la via principale del paese.
La poesia “Claretta”
La poesia “Claretta”, Ettore Vivani l’ha presumibilmente scritta dalla zona di guerra e, da lì, spedita a casa. Tre pagine fitte di poesia. La circostanza secondo la quale la brutta copia di tale poesia sarebbe stata scritta al fronte spiegherebbe molte cose circa il suo contenuto testuale. Sembra chiaro, oramai, come colui il quale va a cacciare sui monti, altri non sia se non Vivani stesso, andato a compiere azioni d’assalto in guerra. Le prefigurazioni della morte potrebbero costituire presentimenti, premonizioni della sua stessa possibile fine in combattimento, ecc.; tutto andrebbe, cioè, visto alla luce della guerra, anche il suo smarrimento durante la caccia in montagna, e l’esortazione della madre, alla sorellina Claretta, d’andarlo a ricercare e riportare a casa, perché la sua stanza è vuota, nonostante il fatto che, a custodirla, sia restata la medesima Claretta. La bella copia dello stesso componimento poetico, Vivani l’avrebbe scritta, invece, una volta ritornato a casa dalla guerra, nel pietoso stato di grande invalido. Questa bella, ma oltremodo enigmatica, poesia di Vivani è stata dedicata alla sorellina Clara, conosciuta da tutti come “Chiarina”, ma, dal fratello, evidentemente chiamata, affettuosamente, “Claretta”.
La versione qui riportata della lirica è, in realtà, la trascrizione della brutta copia del componimento poetico (che è tuttora conservata), stesa, verosimilmente al fronte, su di un foglio a quadretti, con tanto di ripensamenti, “pentimenti”, e cancellature, ma già perfettamente compiuta nel suo contenuto testuale.
Un’altra, ed alternativa, interpretazione del nucleo contenutistico del componimento lirico fa supporre, invece, che lo stesso sia stato elaborato da Vivani una volta tornato a casa dalla guerra, con la mente già proiettata verso il tempo da lui scientemente stabilito quale il termine ultimo dei suoi giorni: domenica mattina, primo di gennaio del 1923. La madre, tornando dalla Messa domenicale, lo trovò, infatti, riverso sul letto, dove, a renderlo esanime, era stato un colpo di rivoltella al cuore, il quale non gli aveva lasciato altro segno che un impercettibile forellino nel petto. Il movente di questo gesto estremo va senz’altro ricercato nei lancinanti ed insopportabili dolori fisici da cui Vivani era attanagliato in conseguenza delle ferite di guerra, dolori che lo costringevano, spesso, ad assumere la morfina. Forse, allora, la poesia fu composta proprio poco prima del suicidio, o nella imminenza di esso, quale testamento spirituale da lasciare ai suoi cari. Così, almeno, lascerebbero presupporre i versi: “Stamane è festa là nel paesello; suonavan le campane a la collina e mamma nostra mi svegliò sul letto”…
Ecco, allora, seguendo quest’ultima chiave di lettura, facilmente spiegati i riferimenti alla “bianca pietra” tombale, al “campo santo”, ed al vuoto della stanza (non solo esistenziale, quindi, ma, presto, anche fisico), che sarebbe stato, di lì a poco, lasciato dalla dipartita di Ettore Vivani per la montagna, possibile allusione all’ascesa in Paradiso.
“CLARETTA”
di Ettore Vivani
Rosso è, del sol, fra gli alti fusti, il riso:[2]
chi sogna, a l’ombra d’una bianca pietra,[3]
va ritrovando un core, il più diviso.
Oh, date un po’ d’aiuto a questa bella
Bimba che viene su per l’aspra via!
C’è quella quercia, là, che la minaccia[4]
E un maligno sentiero che la svia.
“Tu, bambinella bionda: che mi porti?
Hai sonno? Dormi qua fra le mie braccia!
È passata, non senti? La Procella,
né l’ombra nera ormai ti dà la caccia…”
“Ettore caro, più non mi conosci?
Sono Claretta, la tua sorellina!
Stamane è festa là nel paesello;[5]
suonavan le campane a la collina
e mamma nostra mi svegliò sul letto:
“Claretta, su, ché sei la più sveltina!
Manca il fratello che, di notte al monte,
N’andò, la buona caccia a preparare:
forse s’è allontanato un poco troppo;[6]
Claretta, tu ce lo dovrai portare!”.
E mi vestì col vestitin più bello
E son partita senza compagnia:
deh! Quanto ho camminato, buon fratello!
M’ha preso l’acqua a mezzo della via!...[7]
“O piccioletto amore, o la più bella
di casa nostra, il tuo cercar che vale?
Come vuoi ch’io ritrovi il mio sentiero?
Come vuoi che lo possa rammentare?”
“Mamma nostra mi disse, al mio partire:
Claretta, s’egli a monte s’è sperduto,
con questi segni a lui ridesta il core:
a manca ha l’ampio tremolar del mare
ed una vela rossa, alla deriva;
quella ch’ei risognava al primo albore.
Pei monti che risalgono dal mare
In ognuno il suo canto egli ha lasciato,
e tra ’l musco ogni faggio li nasconde:
s’egli scendendo chiede la sua ira,
ogni faggio è un amico e gli risponde.
A valle egli ha lasciato una brunetta
Che canta e tesse ne la sua casetta:
canta un ricordo e tesse una speranza:
se giunge a lei rïarso dal cammino,
a lui non negherà pane né vino.
Più avanti, tra due praterelle[8] amene,
È un campo santo,[9] e un salice lo guarda,
dove dormono i nonni nostri insieme.
Di là, di là, fratello mio, ben poco
Tu dovrai fare: è mamma[10] che t’aspetta!
Tutta verde è la nostra porticina,
una fiammata allegra il focolare;
ma nulla, nulla nella tua stanzetta![11]
Soltanto i fiori grandi e la cedrina,
Ch’io stessa, o Tore,[12] ho cura di guardare!
E t’aspettano tutti, stamattina!”
“O poveretta, ma tu non lo sai
che c’è un fosso profondo cupo, cupo
che tu non hai veduto al tuo passare,
e in fondo piange l’ùlulo[13] del lupo.
E dì e notte gridano le fate
Che nessuno non osi oltrepassare:
chi entrò per mala voglia in questo loco
lasciò cuore e fardello al limitare!
Ma dentro è d’oro il bosco e giovinette
Le fate sono; quelle che, di sera,
Ti raccontava il tuo fratello al fuoco.[14]
Ma la più bella sta laggiù, Claretta,
che mi sorride: è bionda come te,
ma più grande; e non corre, ma riposa;
e di nome si chiama Laüretta!
Ella sola mi cerca e per lei sola
Resto:[15] e ogni giorno più lenta m’attira
Con gli occhi dolci, dolci di viola.
Ritorna a casa, e a mamma, che ci aspetta,
Dì che la pace mai non m’abbandona:
la vostra pace, povera Claretta!
La bambinella ha pianto e s’è partita…
Io mi destai così…[16]povera vita!...
[1] Secondo quanto tramandano i nipoti viventi dell’ardito, una pallottola, attraversandogli il corpo, gli avrebbe trapassato un polmone e leso la spina dorsale, lasciandolo, così, per sempre incapace di camminare senza l’ausilio delle stampelle.
[2] Nella versione definitiva, scritta, di proprio pugno, ed in elegante calligrafia, una volta ritornato a casa dalla guerra, da Ettore Vivani, su di un ingiallito quaderno a righe, e conservata dal nepote di Costacciaro, signor Ubaldo Angeli, parrebbe doversi leggere ‘viso’.
[3] “Bianca pietra”: è, forse, la prefigurazione della sua lastra tombale…
[4] In questa quercia potrebbe forse riconoscersi una persona robusta e violenta che minacciava la bambina…
[5] Forse Villa Col de’ Canali, paese di Ettore Vivani…
[6] Nel fratello che si perde, andando a caccia sul monte, può, certo, essere riconosciuto Ettore Vivani medesimo, partito per la guerra.
[7] In questa pioggia, che sorprende la bambina, durante il cammino, si ravvisa, certo, una grande difficoltà, incontrata nella vita, da lei stessa o dal fratello Ettore. Le vicende dei due congiunti sembrano, infatti, e di sovente, trascorrere l’una nell’altra e confondersi.
[8] Singolare variante del dialettale “pratelle” per l’italiano ‘pratelli’, cioè prati di modeste dimensioni.
[9] “Campo santo”: ancora il riferimento ad un trapasso.
[10] Evarista Brunamonti Vivani, la genitrice di Ettore Vivani.
[11] “Ma nulla, nulla nella tua stanzetta!”: il vuoto della stanza pare lasciar presagire l’imminente dipartita di Ettore Vivani.
[12] Diminutivo e vezzeggiativo di Ettore.
[13] Probabile licenza poetica per ‘ululato’.
[14] Ettore Vivani era, evidentemente, solito raccontare, prima di partire per il fronte, o, anche, dopo la guerra, le fiabe del focolare alla sua sorellina.
[15] “E per lei sola resto”: ‘e solo ed unicamente per il suo amore continuo a vivere’.
[16] “Io mi destai così…”: sembra, in tale passo testuale, che Ettore Vivani abbia fatto solo un brutto sogno in zona di guerra. Tutta questa poesia, in realtà, resta, comunque, oltremodo enigmatica ed onirica, e quasi irriducibile ad ogni tentativo di interpretazione letterale.